Grandi dimissioni: top manager tentati dal Management di Transizione?
Come rivela uno studio di Dares[1], circa mezzo milione di persone si dimettono ogni trimestre – un record dalla crisi del 2008. Diverse cause e/o motivazioni spiegano la portata del fenomeno delle “grandi dimissioni”, che colpisce in modo particolare i dirigenti. Questa necessità di scoprire nuovi orizzonti li condurrà, ad esempio, al Management di Transizione? Per far sì che questa opzione possa concretizzarsi, deve essere il risultato di una riflessione profonda, come spiega Céline Capdupuy, Manager di Transizione CAHRA.
Il fenomeno delle grandi dimissioni è indubbiamente multifattoriale
In Francia, in particolare, un mercato del lavoro molto vivace e un’inflazione galoppante che incoraggia le persone a cercare un lavoro retribuito meglio, lo favoriscono senza dubbio. È possibile considerare, con un pizzico di provocazione, i lavoratori che si dimettono come “mercenari”?
Un’analisi di questo tipo sarebbe troppo affrettata. Altri fattori contribuiscono al fenomeno, fin dall’inizio della crisi sanitaria e del lockdown, alimentando molte riflessioni e interrogativi. Le prospettive di carriera, la flessibilità nell’organizzazione del lavoro, la ricerca di una maggiore autonomia, la qualità della vita lavorativa, l’equilibrio tra lavoro e vita privata… Ogni potenziale “dimesso” si trova a spuntare una o più di queste caselle! I datori di lavoro devono quindi reinventare le proprie politiche HR per favorire l’attrattività e la fidelizzazione dei talenti.
Dopo la crisi sanitaria, l’attaccamento al proprio datore di lavoro è diminuito
Il tema si preannuncia difficile: lo conferma uno studio condotto da Indeed, il motore di ricerca per trovare lavoro. Un dipendente su due, infatti, ritiene di essere “meno attaccato alla propria azienda” rispetto al periodo che ha preceduto il primo lockdown. Un legame spezzato che si traduce in una tendenza al disimpegno, con il rischio che “basti una goccia per far traboccare il vaso”, rompendo di fatto il contratto di lavoro. Ad esempio, in caso di disaccordo con il proprio datore di lavoro su un punto specifico, un terzo degli intervistati preferirebbe dimettersi piuttosto che cercare un compromesso.
“Il 49% degli intervistati che ha già rassegnato le dimissioni dichiara di sentirsi sollevato, il che dimostra che in molti casi le dimissioni non servono solo per crescere professionalmente o per aumentare la propria retribuzione (…), ma che permettono di porre fine a una situazione problematica, o addirittura ad una sofferenza professionale“, spiega Éric Gras, esperto del mercato del lavoro presso Indeed France.
Più di un dirigente su due dichiara di essere pronto a dimettersi
Se si considerano tutte le categorie, un gran numero di dirigenti sta valutando un altro percorso professionale. Come spiegano gli esperti dell‘Apec (Associazione per l’impiego dei quadri), più di uno su tre esprime questa aspirazione. Quattro dirigenti su dieci affermano di essere pronti ad abbandonare il proprio lavoro, in particolare per diventare lavoratori autonomi. Un altro studio, condotto da Ifop (Istituto francese di opinione pubblica) per Bona fidé e Arthur Hunt su 500 dirigenti, rivela che il 58% degli intervistati è pronto a dimettersi, nonostante si consideri perfettamente allineato con la visione e l’etica della direzione nella gestione del business.
L’indagine rivela altre informazioni importanti: su tutte, l’immagine molto positiva a cui viene associato il Management di Transizione e la sua utilità. Al punto di farne un progetto professionale? Come spiegano gli esperti dell’Ifop, “in un contesto in cui il rapporto con il lavoro sta cambiando, dove le carriere non sono più lineari, dove l’etica conta, il transition management potrebbe essere una soluzione per il futuro, sia per i quadri e le loro aspirazioni individuali al cambiamento e a una vita professionale più completa, sia per le aziende, alleviando le loro difficoltà di assunzione”.
Il Management di Transizione è una “via preferenziale” per chi si dimette?
Secondo Céline Capdupuy, Manager di Transizione CAHRA, quest’evoluzione di carriera può contribuire a ritrovare il senso del lavoro e costituisce, di fatto, un seguito logico per i dirigenti che stanno valutando di dimettersi. A patto, avverte, che “si assicurino che le loro motivazioni personali corrispondano alla ragion d’essere e all’etica della professione di Manager di Transizione, con una volontà di accompagnare il cliente nelle sue sfide e di adottare la postura che consente una profonda trasformazione attraverso il management”. Céline sottolinea quindi il rischio associato al fenomeno delle grandi dimissioni, che potrebbe avere un impatto sulla funzione dei Manager di Transizione: “La nostra professione potrebbe diventare un fornitore di risorse, in senso numerico, per sopperire alle dimissioni dei manager e alle loro conseguenze in termini di destabilizzazione dei team interni”.
Il fenomeno delle grandi dimissioni è ancora più marcato tra le donne manager
Un altro pericolo incombe oggi sulle aziende: mai prima d’ora così tante donne manager hanno gettato la spugna, almeno in Nord America. Questo è quanto emerge dall’indagine annuale di McKinsey e LeanIn.org sulle carriere femminili. Per ogni donna manager promossa, altre due si dimettono. Uno studio condotto in Francia da Garance&Moi rivela che più di una donna su due vorrebbe cambiare lavoro, indipendentemente dalla posizione. Tre sono i fattori alla base di questo desiderio di cambiamento: la frustrazione o il senso di noia, una situazione di sofferenza sul lavoro e la volontà di affrontare una nuova sfida. In questa prospettiva, Céline Capdupuy sottolinea “l’importanza delle reti femminili, sia interne che esterne all’azienda, per evolvere il proprio pensiero e affermare con forza le proprie decisioni”. È un’opportunità per superare le percezioni limitanti e prendere in considerazione un’altra carriera, nel Management di Transizione… oppure no.
[1] Lo studio Dares può essere consultato qui.