La Voce dell’Esperto: Moira Masper, Change e Transition Management in Italia
Oggi incontriamo Moira Masper, presidentessa di Assochange, ad oggi l’unica associazione, sia in Italia che a livello europeo, a essere “luogo di incontro, confronto, acquisizione e diffusione di conoscenza sul Change Management, volto ad aiutare le organizzazioni a raggiungere gli obiettivi di cambiamento.” Ogni anno Assochange realizza – in collaborazione con l’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, suo socio onorario – il celebre Osservatorio sul Change Management, quest’anno giunto alla sua VIII edizione.
Partiamo da qui per chiedere quali temi e aspetti salienti sono emersi dallo studio dello stato dell’arte del Change Management in Italia nel 2021.
‘Prima di entrare nel vivo della risposta, vorrei fare un piccolo approfondimento sulla mission di Assochange. Siamo uno spazio di confronto e scambio sulle tematiche e le metodologie del Change Management, finalizzate ad aiutare le organizzazioni e – in modo più ampio – il Paese nel cambiamento, diventato nel tempo un tema centrale per le aziende italiane. La nostra missione ha assunto ancor più valore negli ultimi anni, segnati dagli sconvolgimenti a livello globale che tutti noi conosciamo. Il nostro desiderio non è soltanto quello di aiutare le nostre aziende socie, parte integrante del panorama italiano, ma di creare un mondo migliore, che non sia circoscritto solamente all’organizzazione. Anche perché, quando parliamo di cambiamento, non ci riferiamo solo alle dimensioni economiche e di business, ma alle persone e allo scopo evolutivo delle organizzazioni stesse, e, di conseguenza, del Paese intero. L’ambizione di Assochange è quindi di tradurre sempre più questa mission in termini di aiuto concreto. Abbiamo a che fare con Soci-Aziende, Soci-Università e Soci-Liberi Professionisti e proprio questa triangolazione, che favorisce l’incontro e il dialogo tra questi mondi, offre una percezione del cambiamento a 360°: l’approccio “scientifico” tipico degli ambienti accademici viene così completato dall’applicazione concreta e operativa delle aziende.
Queste sono le fondamenta dell’approccio di Assochange, reso ancora più evidente dall’Osservatorio sul Change Management che realizziamo ogni anno: in quest’occasione, infatti, cerchiamo di “fotografare” come le aziende italiane cambiano, attraverso una sezione storica – in cui analizziamo il numero di progetti di trasformazione, il loro oggetto, la percezione che ha l’organizzazione rispetto agli obiettivi di cambiamento – e una sezione dove inseriamo domande specifiche sugli argomenti trattati dall’associazione durante l’anno. L’Osservatorio 2021, in particolare, riassume i temi caldi del triennio precedente, ovvero “riportare le persone al centro”, occuparsi di “diversity-inclusion” e “costruire un futuro sostenibile”. Abbiamo voluto, nell’Osservatorio del 2021, approfondire ciascuna di queste tematiche, monitorando e confrontando i risultati precedenti.
- Le voci degli oggetti di cambiamento sono state riconfermate, a partire dalla trasformazione digitale e tecnologica, che ha subito una spinta decisiva dal 2020-2021 con l’avvento della crisi pandemica e la conseguente “esplosione” dei cambiamenti nelle modalità di lavoro. Proprio in questo frangente, abbiamo osservato come aziende già digitalizzate abbiano affrontato meglio gli imprevisti, consentendoci quindi di riflettere su un primo assioma molto importante: la necessità di recuperare il concetto strategico del cambiamento. Impostare una strategia non solo a breve ma soprattutto a lungo termine, consente alle aziende di garantire continuità al business, scongiurando tutte quelle situazioni che, non essendo previste, rischiano di “paralizzare” e di mettere a repentaglio l’attività con gravi perdite.
- Un secondo oggetto altrettanto importante nei progetti di cambiamento riguarda la struttura e i modelli organizzativi del lavoro, tema diventato improvvisamente urgente durante il periodo pandemico, in cui siamo stati costretti a ripensare il funzionamento delle nostre organizzazioni. Alcune modalità e metodologie di lavoro agile, favorendo e incoraggiando la flessibilità aziendale, hanno consentito di mantenere il controllo e la stabilità anche durante il passaggio da una cultura organizzativa reale ad una virtuale. Il Change Management è decisivo nella scelta del modello organizzativo più funzionale agli obiettivi evolutivi, strategici e di cambiamento dell’azienda, anche in funzione alla struttura organizzativa che si ha a disposizione.
- Emergono inoltre tematiche relative a cultura e comportamenti: quando il contesto si fa incerto, l’azienda deve coltivare e diffondere una cultura che favorisca le nuove tendenze, siano esse strumenti tecnologici o relazioni a distanza. I manager hanno, in questo senso, il compito di creare comportamenti virtuosi, riportando equilibrio nella gestione delle persone, servendosi anche di strumenti di analisi del livello di maturità delle aziende.
- Infine si riconferma il trend – osservato dal 2017 in poi – della contemporaneità dei progetti di durata minore. In questo caso la difficoltà percepita dalle aziende è principalmente quella di riuscire a gestirli e renderli parte di un disegno e di una strategia che risulti coerente. Viviamo in una frenesia continua che rende critico il monitoraggio dei risultati – già culturalmente distante dal mindset delle aziende italiane. Nel cambiamento continuo percepito dalle organizzazioni, ci si deve costringere a recuperare nella metodologia di Change Management quegli strumenti che consentono di apprendere, fissare ciò che si è fatto e trasformarlo in apprendimento organizzativo, non in “affanno culturale”.’
Spostiamo l’attenzione sugli impatti del Change Management sull’attuale contesto sociale, politico ed economico di incertezza. Come il Change Management potrebbe essere funzionale e di aiuto per mitigare gli impatti della pandemia e del conflitto russo-ucraino?
‘Oggi stiamo riscontrando, anche a livello associativo, grandi criticità – dettate prima dal contesto pandemico, ancora non totalmente risolto, e ora dalla guerra – all’interno delle aziende, che con sempre maggiore fatica riescono a conciliare da una parte la costruzione di una strategia e di una visione a lungo termine (3-4-5 anni), dall’altra la difficoltà contingente ad esempio del reperimento di materiali o nella gestione dei loro processi di business e, in tutto questo, la gestione corretta del disagio emotivo e psicologico vissuto dalle persone, provocato anche dal drammatico contesto globale. Il Change Management, utilizzando metodologie specifiche, si propone di supportare le aziende nella difficile gestione di queste tre dimensioni: potrebbe infatti creare e mantenere la progettualità, far nascere – attraverso il sistema di stakeholder management – relazioni migliori, a creare nuovi patti, potrebbe essere funzionale nell’ideare iniziative di comunicazione e di formazione, fondamentali per alimentare il senso di appartenenza all’organizzazione – oggi minacciato dal lavoro da remoto e da un concetto di smart working, non ancora maturo nelle aziende. In questo senso è importante saper creare occasioni di confronto che – anche a distanza – parlino del valore, del senso e degli obiettivi da raggiungere insieme, altrimenti dispersi. Il manager è la figura che può – attraverso la metodologia specifica del Change Management – recuperare il feeling con la propria organizzazione, creando concretamente e intenzionalmente queste iniziative, attuando una cultura in grado di abbattere le resistenze all’utilizzo di nuove strumentazioni: perché se da un lato siamo stufi del lavoro da casa e vorremmo tornare alle modalità precedenti, dall’altro siamo intimoriti dall’idea di tornare totalmente in presenza e uscire da quella che è diventata una “zona di comfort”. Lo smart working, non è il lavoro da casa, questo concetto non è del tutto chiaro ancora, lo smart working è un esperienza complessiva di un lavoro smart e flessibile che porta a un grande cambiamento, soprattutto culturale del modo di lavorare, ma anche di modalità di gestione dei tema e della collaborazione e quindi deve essere accompagnato da un Change Management. Il Change Management può aiutare a mettere ordine, a ricostruire, a sistematizzare, a mappare e a rendere visibile quello che è accaduto, prendendo delle decisioni. Scegliere cos’è più adatto all’organizzazione, avendo cura di comunicare il perché alle risorse presenti. C’è bisogno di questo aspetto, ormai diventato essenziale.’
Qual è il punto di vista della vostra associazione sul tema della transizione digitale?
‘La digitalizzazione è un tema caldo per Assochange: infatti, negli Osservatori stessi del 2016 e 2017, abbiamo osservato la comparsa dei primi progetti di cambiamento delle aziende relativi all’IT, seguiti da un boom di trasformazioni digitali. Sempre più organizzazioni hanno dichiarato di avere tra i loro progetti di cambiamento temi legati al digitale, e in associazione abbiamo affrontato questa tematica sia dal punto di vista delle competenze che le persone devono possedere per affrontare progetti di digitalizzazione, sia dal punto di vista culturale, relativo alle resistenze ai nuovi comportamenti. In una logica di Change Management diciamo sempre che “creare un progetto di cambiamento legato al progetto principale di trasformazione digitale” significa occuparsi di tutta la dimensione aziendale, a 360°: non è possibile, infatti, non occuparsi della cultura presente rispetto al tema digitale nelle persone dell’organizzazione, di nuovi comportamenti da creare, di nuove competenze necessarie, e quindi dell’approccio sistemico, fondamentale rispetto al progetto di digitalizzazione in sé. Non possiamo trascurare il fatto che il cambiamento avrà un impatto su tutte le aree aziendali ed è strettamente legato alla strategia, per questo motivo bisogna creare delle iniziative per far sì che il progetto funzioni, che l’investimento porti ai risultati desiderati e che diventi un successo – evitando che le persone continuino ad usare strumenti e dati ormai obsoleti. A questo tema di conciliazione tra obiettivi mirati e diffusione di una cultura aziendale rispetto al progetto principale, è legata anche l’analisi della maturità digitale delle aziende, supportata dagli strumenti forniti dal Change Management.’
Quali sono, secondo lei, le connessioni fra Change Management e Transition Management: sinonimi, due facce della stessa medaglia?
‘Per pura coincidenza, ci siamo occupati di questa “distinzione” proprio di recente: una nostra associazione amica, Federprofessional, ci ha chiesto di fare un intervento relativo al nostro percorso formativo base sul Change Management all’interno del loro corso per Transition Manager. Posso affermare che, come associazione, non pensiamo si tratti dello stesso mestiere, e lo diciamo perché, se il Change Manager possiede delle competenze, conoscenze ed esperienze specifiche, il Transition Manager dovrebbe trovarsi ad affrontare il tema della transizione digitale in una logica di cambiamento. L’approccio di quest’ultimo sarà, infatti, mettere in atto un progetto di cambiamento all’interno dell’organizzazione, con un atteggiamento mentale che gli imporrà di occuparsi sì del tema tecnologico ma all’interno di un progetto più ampio, su tutti i livelli: parliamo di strategia, del coinvolgimento delle persone sull’utilizzo, di adoption della nuova soluzione. Bisogna capire e mostrare i vantaggi della transizione per l’azienda, lavorando sul tema della comunicazione e della formazione a nuove competenze. Ecco perché, dal nostro punto di vista, l’approccio e le metodologie del Transition Management sono molto preziose. Diverso è il ruolo del Change Manager, che non si connota mai – se non per la sua esperienza – come un esperto del contenuto centrale del cambiamento (che sia la tecnologia, la finanza, ecc): ha delle competenze organizzative, su metodologie di cambiamento e comunicazione, che non tutti possiedono. Dal dibattito che si era creato con il gruppo di cui accennavo prima, è emersa l’idea che il Change Management sia assolutamente necessario ad un Transition Manager, perché anche se non entra in relazione con lo sponsor del progetto di transizione (che sia l’amministratore delegato o il proprietario, in base a chi detiene il potere decisionale), se non dà vita in azienda ad un dialogo sulla necessità di pensare a iniziative legate a coinvolgimento, ingaggio, comunicazione, formazione, monitoraggio, definizione di obiettivi di cambiamento – non solo correlate al funzionamento della tecnologia… Ecco che sarà più difficile cambiare e perseguire gli obiettivi di transizione! Riassumendo, c’è un forte legame: il Transition Manager dovrebbe possedere competenze di Change Management e in particolare proprio il mindset di partenza, consentendogli di vivere la transizione come un importante progetto di cambiamento, che ha impatti su tutta l’organizzazione, accompagnato – ancora una volta – dalla centralità dell’approccio sistemico. Non definisco un Transition Manager un Change Manager: se esistesse una struttura organizzativa o un livello culturale che lo consentisse, l’asset ideale sarebbe costituito dalla presenza di entrambe le figure. Ma tutto ciò dipende dalle dimensioni dell’organizzazione e da come è strutturata, se parliamo di piccole e medie aziende questo compito viene assolto – il più delle volte – da un consulente esterno. E, a maggior ragione, oltre ad una sensibilità di cambiamento dovrebbe possedere le competenze necessarie per aiutare quell’azienda a cambiare, non soltanto dal punto di vista tecnologico.’